martedì 31 marzo 2015

Canto Tradizionale Arbereshe della Kalimera

a parola Kalimera (si pronuncia kaglimèra) dal greco "buongiorno", ha come significato autentico "buona novella". E' una vera composizione poetica di soggetto sacro, dove vengono ricordati episodi della vita terrena di Gesù, i grandi misteri, le glorie della Vergine e dei Santi.

La Kalimera a Greci.

SeSegue testo e critica

di Pietro Napoletano)
  Letteralmente, “kalimèra”
significa “bel giorno” o “buongiorno” ( dal greco kalà-imèra ), ed era il
buongiorno che, gruppi di giovani, andavano a cantare per le strade e per le
case la mattina di Pasqua, per annunziare la buona novella della Resurrezione
di Cristo. Se il canto augurale avveniva di sera, naturalmente, veniva definito
“kalispèra.” Successivamente, quello che era un annuncio festoso venne usato
anche per indicare quella specie di inni sacri popolari che narravano la
passione e morte di N.S. Gesù Cristo. Non so se consciamente o inconsciamente,
paradossalmente, anche la passione e morte di Gesù è una buona novella. Ma
quanti paradossi concernenti la religione, il nostro intelletto “limitato”, da
suo umano stato, non riesce a comprendere! La parola “kalimèra” ora, nel
piccolo mondo arberesh, è rimasto a significare soltanto quegli inni sacri di
sapore popolare che narrano appunto la passione e morte di Gesù, e che vengono
cantati con molta devozione durante la Quaresima. E, nella loro semplicità,
sono canti bellissimi ove si trovano immagini poetiche di straordinario vigore:
“Djelli u èrr, nder qìell ll u buar / hena ka jetr’an u pruar” ( Il sole s’è
oscurato, nel cielo è sparito/ la luna si è girata dall’altra parte).
Tramandate di generazione in generazione, le kalimère sono conosciute in tutti
i paesi arberesh, anche se con alcune varianti, giacchè  lungo il loro
secolare cammino, hanno inevitabilmente subìto qualche lieve modifica.
La più celebre è senz’altro “Nje
t’enjten ndaj dite” ( Un giovedì sul far del giorno), composta o trascritta dal
sacerdote e poeta di San Giorgio Albanese Giulio Variboba ( 1724-1788), ma ve
ne sono anche altre moto belle. Ricordo che già nel primo giorno di Quaresima
“Kreshmet”, mia madre dava inizio al canto delle kalimère che creava
un’atmosfera di mestizia che contribuiva efficacemente a predisporre l’animo a
vivere con profonda devozione il più grande evento della cristianità. Oltre mia
madre, mia zia e noi bambini, c’erano sempre, almeno due o tre donne del
vicinato “Gijtonja”, che davano vita al coro delle kalimère. Io, con altri
ragazzi, eseguivo l’ìson con molto impegno e partecipazione emotiva.
E’ l’ìson una forma di accompagnamento
armonico vocale eseguito quasi a bocca chiusa, abituale nel canto liturgico
bizantino, in uso nelle chiese greche, dagli effetti suggestivi. Si tratta di
una sorta di salmodìa che si svolge su due soli suoni, e che consiste nella
tenuta della voce sulle note cosiddette “buone”, seguendo lentamente la
melodia. La nenia più struggente, per me, quella che mi metteva nel cuore una
tristezza infinita e in alcuni passaggi mi faceva accapponare la pelle, era
“M’u nis Zonja Shen Meri”( S’incamminò la Vergine Maria). Anche da grande, l’ho
risentita volentieri, sempre con grande commozione, quando veniva cantata in
chiesa, davanti al Sepolcro, il Giovedì Santo.
A pensarci bene, il testo non è
che sia un gran che, e sciorina una sequela di incongruenze storiche, il che ha
fatto sempre arricciare il naso a molti saccenti ai quali, a mio avviso,
mancava l’umiltà per penetrare il senso profondo del fervore popolare. Narra la
suddetta kalimèra, che la Vergine Maria, affranta dal dolore e piangendo a
dirotto, vagava per il mondo alla ricerca del Figlio, e trovandosi a passare
davanti ad un convento, chiese ad un cappuccino se avesse per caso visto il di
Lei Figliuolo. Certo,  le incongruenze storiche sono così evidenti che non
vale neppure la pena rilevarle. Ma proprio per questo, a me pare che quel
testo, nella sua semplicità e fanciullesca connessione, si presenti con
un’altra suggestione lirica che consente ogni, anche eccezionale acrobazia di
immagini, perché coglie il senso profondo del mistero della passione e morte di
N.S. Gesù, che trascende il tempo e lo spazio si pone come punto di riferimento
per l’umanità tutta, del passato, del presente e del futuro






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